Poemi di Psyche

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

II.

La Civetta

«O tristi capi! O solo voci! O schiene

vaie così come la biscia d’acqua!

Via di costì!» gridava agro il custode

della prigione. Era selvaggio il luogo,

deserto, in mezzo della sacra Atene,

con sue deformi catapecchie al piede

di bigie roccie dalle strie giallastre,

piene di buchi, verdeggianti appena

qua e là di partenio e di serpillo.

Il sole era sui monti, e nell’azzurro

passava fosco a ora a ora un volo

d’aspri rondoni che girava attorno,

sopra la rocca, alla gran Dea di bronzo,

forte strillando. Ed anche in terra un gruppo

di su di giù correva, di fanciulli;

strillando anch’essi. Ed ecco s’aprì l’uscio

della casa degli Undici, e il custode

alzò dal tetro limitar la voce.

Egli diceva: «È per voi scianto ancora?

Ieri da Delo ritornò la nave

sacra, e le feste sono ormai finite.

Non è più tempo di legar col refe

gli scarabei! Non più, di fare a mosca

di bronzo!» Un poco più lontano il branco

trasse, in silenzio. Poi gridarono: «Ohe?

che parli tu di scarabei, di mosche?

È una civetta.» In vero una civetta

tutta arruffata era nel pugno a Gryllo

figlio di Gryllo facitor di scudi,

ch’era il più grande. Ma l’avea pocanzi

in un crepaccio Hyllo predata, il figlio

d’Hyllo vasaio, ch’era il più piccino.

In un crepaccio della bigia rupe,

sotto un cespuglio di parïetaria,

vide due rilucenti Hyllo stateri

d’oro, nell’ombra, e s’appressò; ma l’oro

non c’era più: poi li rivide i due

fissi e tondi nell’ombra occhi d’uccello.

Una civetta della Dea di Atene

immobilmente riguardava il figlio

d’Hyllo vasaio; che con le due mani

all’improvviso l’abbrancò su l’ali,

e la portava. E Coccalo sorvenne

che gliela prese; a Coccalo la prese

Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora

Cottalo pianse, Coccalo sorrise,

e il piccolino frignò dietro il grande.

Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede

della civetta, e la facea sbalzare

e svolazzare al caldo sole estivo.

E dai tuguri altri fanciulli, figli

d’arcieri sciti, figli di metèci,

trassero. E in mezzo a tutti la civetta

chiudeva apriva trasognata gli occhi

rotondi, fatti per la sacra notte.

E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»

E nel carcere in tanto era un camuso

Pan boschereccio, un placido Sileno

col viso arguto e grossi occhi di toro.

Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi

un giovanetto dalla lunga chioma,

bellissimo. E molti altri erano intorno,

uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore

era un fanciullo che temeva il buio;

e il buon Sileno gli facea l’incanto.

«Voi non vedete ciò ch’io sono. Io sono»

egli diceva «ciò che di me sfugge

agli occhi umani: l’invisibile. Ora

s’ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;

ma non è lui, non è quest’io, che trema:

trema ciò ch’egli guarda, che si vede,

che mai non dura uguale a sé, che muore.

Io, di me, sono l’anima, che vive

più, quanto più vive con sé, lontana

dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.

E s’ella parta libera per sempre,

nella notte immortale, ove si trovi

ella con tutto che non mai vacilla,

ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno

«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.

Poi fu silenzio. Il musico vegliardo

Pan era solo, accanto al suo pensiero

invisibile. Il bello adolescente,

supino il capo, con la lunga chioma

spiovente, lungi dalla nuca, all’aria,

beveva l’eco delle sue parole.

Ed ecco entrò dall’abbaino un canto

d’acute voci: «Balla, dunque, o muori!»

E il custode dal tetro uscio i fanciulli

striduli fece lontanar nel sole,

fuor dell’ombra dei tetti e della roccia.

Ma là, nel sole, molleggiò più goffa

sul pugno a Gryllo, s’arruffò, chiudendo

aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi

ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo

figlio di Gryllo, tu che sei più savio,

dà retta. Sai: codesto uccello è sacro

alla Dea nostra, a cui tu canti l’inno

movendo nudo coi compagni nudi

per la città. La nostra Dea sa tutto,

ché gli occhi ha grigi, di civetta, e vede

con essi per l’oscurità del cielo.»

«No, che non vede» disse Hyllo «né vuole

vedere, e chiude gli occhi tondi al sole.»

«Passero, taci. Tu, Gryllo» il custode

riprese, «grande già mi sei. Conosco

tuo padre, il buono artefice di scudi.

Tu gli somigli come fico a fico.

Fa chetare le tortore ciarliere.

C’è dentro la mia casa uno che muore!»

«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»

«Perché?» «La nave ritornò da Delo.

Ed egli vide un sogno: una vestita

di bianche vesti, che gli disse: O uomo,

il terzo giorno toccherai la terra!

E la cicuta, sì, berrà dentr’oggi.

Tra poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»

Tacquero allora i giovanetti a lungo

pensando all’uomo che così, per mare,

tornava in patria. E Gryllo disse: «È l’uomo

che andava scalzo e passeggiava in aria,

e diceva che il sole era una pietra,

e sapeva che terra era la luna...»

Ed in silenzio trassero alla roccia

tutti, e stettero presso la prigione,

come aspettando. E la civetta, al lento

filo costretta, si posò sul ramo

d’un oleastro che sporgea dal masso

sopra i ricciuti capi dei fanciulli.

Si chinò, s’arruffò, molleggiò, cieca

per la gran luce rosea del tramonto.

E dai tegoli un passero la vide

e garrì contro la non mai veduta,

e vennero altri passeri al garrito;

e il frastuono eccitò le rondinelle,

e fuori ognuna si versò dal nido;

e da un tacito ombroso bosco sacro

venne la capinera e l’usignuolo.

E grande era lo strepito e il bisbiglio,

pur non udito dai fanciulli, attenti

ad una voce che venìa di dentro,

di chi tornava alla sua patria terra

invisibile, e placido parlava

a un’altra barca che incrociò sul mare.

E poi cessato il favellìo di dentro,

un dei fanciulli disse: «Hyllo, tu monta

su le mie spalle, e narra quel che vedi.»

Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo,

e sogguardò per l’abbaino: «Io vedo.»

«Hyllo, che vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»

«Che dice?» «Dice che andrà via, che il morto

non sarà lui: seppelliranno un altro.»

Il sole in tanto ritraeva i raggi

dai bianchi templi della sacra Atene.

Sola splendea la cuspide dell’asta

che aveva in mano la gran Dea di bronzo.

Brillò d’un tratto e poi si spense; e il sole

calò raggiando dietro il Citerone.

«Hyllo, che vedi?» «Beve.» «La cicuta!»

«Piangono, gli altri; uno si copre il capo

con la veste, uno grida.» «Esso, che dice?»

«Dice di far silenzio, come quando

si sparge l’orzo, presso l’ara, e il sale.»

Ed era alto silenzio, che s’udiva

il passo scalzo su e giù dell’uomo,

e poi nemmeno si sentì quel passo.

«Hyllo, che vedi?» «È sul lettuccio; un altro

gli preme un piede. S’è coperto. Muore...»

«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:

Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»

«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»

«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»

Dunque non parte? è sempre lì? Sì, morto.

E bisbigliando stavano i fanciulli

lungo la roccia, al buio. Ecco e la porta

s’aprì. N’usciva con singhiozzi e pianti

un vecchio, un giovinetto, altri poi molti

tristi gemendo. E dall’inconscie dita

il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:

e il sacro uccello della notte in alto

si sollevò con muto volo d’ombra.

E i compagni del morto ed i fanciulli

scosse un subito fremito, uno strillo

di sopra il tetto, Kikkabau... dall’alto,

Kikkabau... di più alto, Kikkabau...

dal cielo azzurro dove ardean le stelle.

E disse alcuno, udendo il fausto grido

della civetta: "Con fortuna buona!"