Poemi di Ate

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

L’etèra

O quale, un’alba, Myrrhine si spense,

la molto cara, quando ancor si spense

stanca l’insonne lampada lasciva,

conscia di tutto. Ma v’infuse Evèno

ancor rugiada di perenne ulivo;

e su la via dei campi in un tempietto,

chiuso, di marmo, appese la lucerna

che rischiarasse a Myrrhine le notti;

in vano; ch’ella alfin dormiva, e sola.

Ma lievemente a quel chiarore, ardente

nel gran silenzio opaco della strada,

volò, con lo stridìo d’una falena,

l’anima d’essa: chè vagava in cerca

del corpo amato, per vederlo ancora,

bianco, perfetto, il suo bel fior di carne,

fiore che apriva tutta la corolla

tutta la notte, e si chiudea su l’alba

avido ed aspro, senza più profumo.

Or la falena stridula cercava

quel morto fiore, e battè l’ali al lume

della lucerna, che sapea gli amori;

ma il corpo amato ella non vide, chiuso,

coi molti arcani balsami, nell’arca.

Nè volle andare al suo cammino ancora

come le aeree anime, cui tarda

prendere il volo, simili all’incenso

il cui destino è d’olezzar vanendo.

E per l’opaca strada ecco sorvenne

un coro allegro, con le faci spente,

da un giovenile florido banchetto.

E Moscho a quella lampada solinga

la teda accese, e lesse nella stele:

myrrhine al lume della sua lucerna

dorme. è la prima volta ora, e per sempre.

E disse: Amici, buona a noi la sorte!

Myrrhine dorme le sue notti, e sola!

Io ben pregava Amore iddio, che al fine

m’addormentasse Myrrhine nel cuore:

pregai l’Amore e m’ascoltò la Morte.

E Callia disse: Ell’era un’ape, e il miele

stillava, ma pungea col pungiglione.

E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci

d’amor le spine, ai dolci fichi i funghi.

E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!

ella, buona, cambiava oro con rame.

E stettero, ebbri di vin dolce, un poco

lì nel silenzio opaco della strada.

E la lucerna lor blandia sul capo,

tremula, il serto marcido di rose,

e forse tratta da quel morto olezzo

ronzava un’invisibile falena.

Ma poi la face alla lucerna tutti,

l’un dopo l’altro, accesero. Poi voci

alte destò l’auletride col flauto

doppio, di busso, e tra faville il coro

con un sonoro trepestìo si mosse.

E fuggì, fuggì via l’anima, e un gallo

rosso cantò con l’aspro inno la vita:

la vita; ed ella si trovò tra i morti.

Nè una a tutti era la via di morte,

ma tante e tante, e si perdean raggiando

nell’infinita opacità del vuoto.

Ed era ignota a lei la sua. Ma molte

ombre nell’ombra ella vedea passare

e dileguare: alcune col lor mite

demone andare per la via serene,

ed altre, in vano, ricusar la mano

del lor destino. Ma sfuggita ell’era

da tanti giorni al demone; ed ignota

l’era la via. Dunque si volse ad una

anima dolce e vergine, che andando

si rivolgeva al dolce mondo ancora;

e chiese a quella la sua via. Ma quella,

l’anima pura, ecco che tremò tutta

come l’ombra di un nuovo esile pioppo:

"Non la so!" disse, e nel pallor del Tutto

vanì. L’etèra si rivolse ad una

anima santa e flebile, seduta

con tra le mani il dolce viso in pianto.

Era una madre che pensava ancora

ai dolci figli; ed anche lei rispose:

«Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto

sparì. L’etèra errò tra i morti a lungo

miseramente come già tra i vivi;

ma ora in vano; e molto era il ribrezzo

di là, per l’inquïeta anima nuda

che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.

E alfine insonne l’anima d’Evèno

passò veloce, che correva al fiume

arsa di sete, dell’oblìo. Nè l’una

l’altra conobbe. Non l’avea mai vista.

Myrrhine corse su dal trivio, e chiese,

a quell’incognita anima veloce,

la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»

E più veloce l’anima d’Evèno

corse, in orrore, e la seguì la trista

anima ignuda. Ma la prima sparve

in lontananza, nella eterna nebbia;

e l’altra, ansante, a un nuovo trivio incerto

sostò, l’etèra. E intese là bisbigli,

ma così tenui, come di pulcini

gementi nella cavità dell’uovo.

Era un bisbiglio, quale già l’etèra

s’era ascoltata, con orror, dal fianco

venir su pio, sommessamente... quando

avea, di là, quel suo bel fior di carne,

senza una piega i petali. Ma ora

trasse al sussurro, Myrrhine l’etèra.

Cauta pestava l’erbe alte del prato

l’anima ignuda, e riguardava in terra,

tra gl’infecondi caprifichi, e vide.

Vide lì, tra gli asfòdeli e i narcissi,

starsene, informi tra la vita e il nulla,

ombre ancor più dell’ombra esili, i figli

suoi, che non volle. E nelle mani esangui

aveano i fiori delle ree cicute,

avean dell’empia segala le spighe,

per lor trastullo. E tra la morte ancora

erano e il nulla, presso il limitare.

E venne a loro Myrrhine; e gl’infanti

lattei, rugosi, lei vedendo, un grido

diedero, smorto e gracile, e gettando

i tristi fiori, corsero coi guizzi,

via, delle gambe e delle lunghe braccia,

pendule e flosce; come nella strada

molle di pioggia, al risonar d’un passo,

fuggono ranchi ranchi i piccolini

di qualche bodda: tali i figli morti

avanti ancor di nascere, i cacciati

prima d’uscire a domandar pietà!

Ma la soglia di bronzo era lì presso,

della gran casa. E l’atrio ululò tetro

per le vigili cagne di sotterra.

Pur vi guizzò, la turba infante, dentro,

rabbrividendo, e dietro lor la madre

nell’infinita oscurità s’immerse.