Poemi di Psyche

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

I.

Psyche

O Psyche, tenue più del tenue fumo

ch’esce alla casa, che se più non esce,

la gente dice che la casa è vuota;

più lieve della lieve ombra che il fumo

disegna in terra nel vanire in cielo:

sei prigioniera nella bella casa

d’argilla, o Psyche, e vi sfaccendi dentro,

pur lieve sì che non se n’ode un suono;

ma pur vi sei, nella ben fatta casa,

chè se n’alza il celeste alito al cielo.

E vi sfaccendi dentro e vi sospiri

sempre soletta, ché non hai compagne

altre che voci di cui tu sei l’eco;

ignude voci che con un sussulto

sorgere ammiri su da te, d’un tratto;

voci segrete a cui tu servi, o Psyche.

Intorno alla tua casa, o prigioniera,

pasce le greggi un Essere selvaggio,

bicorne, irsuto; e sui due piè di capro

sempre impennato, come a mezzo un salto.

E tu ne temi, ch’egli là minaccia

impazïente, e sempre ulula e corre;

e spesso guazza nel profondo fiume,

come la pioggia, e spesso crolla il bosco,

al par del vento; e non è mai l’istante

che tu non l’oda o non lo veda, o Psyche,

Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia

dolce così nelle palustri canne,

che tu l’ascolti, o Psyche, con un pianto

sì, ma che è dolce, perché fu già pianto

e perse il tristo nel passar dagli occhi

la prima volta. E tu ripensi a quando

vergine fosti ad un’ignota belva

data per moglie, crudel mostro ignoto.

E sempre al buio tu con lui giacesti

rabbrividendo docile, ed alfine,

vigile nel suo sonno alto di fiera,

accesa la tua piccola lucerna,

guardasti; e quella belva era l’Amore.

E lo sapesti solo allor che sparve,

l’Amore alato. E ne sospiri e l’ami.

E nella casa di ben fatta argilla,

dove sei schiava delle voci ignude,

sempre l’aspetti, che ritorni, e dorma

con te. Tu piangi, quando Pan, la notte,

fa dolcemente sufolar le canne;

piangi d’amore, o solitaria Psyche,

nella tua casa, dove più non tieni

posto, che l’ombra, e non fai più rumore,

che l’alito; e le voci odi che fanno

all’improvviso a te cader dal ciglio

la stilla che non ti volea cadere.

Però che sono e sùbite e severe

le più; ma più di tutte una che sempre

contende e grida, ad ogni tuo sospiro

verso l’alata libertà: «Non devi!»

Quella non t’ama, credi tu; ma un’altra

è, sì, che t’ama, e ti favella a parte

e ti consola, e teco piange, e parla

così sommessa che tu credi a volte

che sia meschina prigioniera anch’ella.

E tu devi, d’un mucchio alto di semi,

far tanti mucchi, e sceverare i grani

d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde

veccie, i bislunghi pippoli di vena.

E come fine polvere di ferro

sparsa per tutto il mucchio è la semenza

dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi

trepida, inerte; e poi con le tue dita

d’aria ti provi, e scegli a lungo i semi

del papavero immemore, e in un giorno

tanti ne cogli, quanti appena udresti

cantare nella secca urna d’un fiore.

E piangi, ed ecco vengono le figlie

dell’alma Terra, frugole e succinte,

dalla pineta dove a Pan selvaggio

frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.

Non so chi disse alle operaie nere

di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto

un brulichìo per l’odorata selva;

e sgorgano esse a frotte dai minuti

lor collicelli, mentre Pan nell’ombra

s’addorme al canto delle sue cicale.

E salgono alla casa, onda su onda,

fila incessanti di formiche, ed opre

vengono a te; ma prima i grani d’orzo,

pesi, e i bislunghi pippoli di vena

portano, due di loro uno di quelli;

fanno le veccie di tra il biondo miglio,

poi fanno il miglio minimo, poi vanno.

E resta a te la polvere di semi,

di cui ciascuno dal suo nulla esprima

un lungo stelo e il molle fior del sonno.

E il molle sonno tu lo chiami, o Psyche,

dacché di quelle voci una, la voce

che non t’ama e ti sgrida aspra, ti disse:

« Vil fanticella, prendi questa brocca

e va per acqua al nero fonte; al fonte

di cui sgorga l’oscura onda, sotterra,

al fiume morto. Esci per poco, e torna ».

E tuo mal grado, o schiavolina, andasti

con la tua brocca di cristallo al fonte;

e là vedesti, su la grotta, il drago,

l’insonne drago, sempre aperti gli occhi;

e tu chiudesti, o Psyche, i tuoi, da lungi

rabbrividendo; ed ecco, non veduto,

uno ti prese l’anfora di mano,

che piena in mano dopo un po’ ti rese,

e dileguò. Tu lentamente a casa

tornavi smorta, e con un gran sospiro

apristi gli occhi, e nel cristallo puro

tu guardasti l’oscura acqua di morte,

e vi vedesti il vortice del nulla.

E ne tremasti. E Pan allora un dolce

canto soffiò nelle palustri canne,

che tu piangesti a quel pensier di morte

come piangevi per desìo d’amore:

lo stesso pianto, così dolce, o Psyche!

Ma pur ne tremi, o Psyche, ancora, e mesta

invochi il sonno, perché a te nasconda

quell’altro sonno, che non vuoi, più grande!

Ma delle voci di cui tu sei schiava,

quella che t’ama e ti consola a parte,

ecco che ti favella e ti consola:

« Povera Psyche, io so dov’è l’Amore.

Oh! l’Amore t’aspetta oltre la morte.

Di là, t’aspetta. Se tu passi il nero

fiume sotterra, troverai l’Amore.

Tremi? C’è un vecchio, vecchio come il tempo,

che tutti imbarca, e non fa male a Psyche!

E c’è un cane, oltre il fiume, che divora

ciò ch’è di troppo, e non fa male a Psyche!

Pallida Psyche, prendi tra le labbra

che sembrano due petali appassiti

di morta rosa, un obolo, e leggiero

tienlo, costì, che te lo prenda il vecchio,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

E prendi una focaccia, anche, col miele

e col mite papavero, e leggiera

tienla, così, che te la prenda il cane,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

Appena desta, rivedrai l’Amore ».

Tu la focaccia prendi su, col miele,

tu chiudi nelle labbra scolorite

l’obolo; e non so quale alito lieve

ti porta via. Per dove passi, un’ombra

passa, non più che d’ali di farfalla.

Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio

ti prende il piccolo obolo di bocca;

ma tu lo senti, e senti anche la rauca

lena del vecchio rematore, come

se alcuno seghi il duro legno, e come

se alcuno picchi su la putre terra;

anche senti un latrato, solitario;

e tremi tanto, che di man ti sfugge

ah! la focaccia, e fa un tonfo nell’acqua

morta del fiume. Ed anche tu vi cadi,

cadi nel queto vortice del nulla.

Ma Pan il gregge pasce là su l’orlo

del morto fiume. Non udivi il suono,

là, della vita? Tremuli belati

e cupi mugli, il gorgheggiar d’uccelli

tra foglie verdi, e sotto gravi mandre

lo scroscio vasto delle foglie secche.

E ti cullava nella vecchia barca

un canto lungo, che da te più sempre

s’allontanava sino a dileguare

nella dimenticata fanciullezza.

Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio

ispido, e su ti leva intirizzita,

gelida, o Psyche; immemore; e ti corca

nuda così, lieve così, nel vello

del suo gran petto, e in sé ti cela a tutti.

Quali alte grida là dal mondo! Quali

tristi lamenti intorno alla tua casa,

d’argilla, o Psyche, donde più non esce

il tenue fumo, alla tua casa vuota

di cui sparve il celeste alito in cielo!

Ti cercano le genti, o fuggitiva.

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca

nel morto fiume il vecchio che tragitta

tutti di là. Ti cerca, acre fiutando,

dall’altra riva il cane che divora

ciò ch’è di troppo. Tutti, o Psyche, invano!

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse

nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.

O nel vento che passa o nella selva

che cresce. O sei nel bozzolo d’un verme

forse racchiusa, o forse ardi nel sole.

Chè Pan l’eterno t’ha ripresa, o Psyche.