Tiberio

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

I

Discende a notte Claudïo dal monte

Borèo: col vento dalle nubi fuori

rompe la luna e gli balena in fronte,

fuggendo. Egli rimira, a quei bagliori,

Livia e l’infante: intorno vanno frotte

silenziose di gladïatori.

S’ode tra lunghe raffiche interrotte

l’Eurota in fondo mormorar sonoro;

s’ode un vagito. E nella dubbia notte

le nere selve parlano tra loro.

II

Rabbrividendo parlano le selve

di quel vagito tremulo, che a scosse

va tra quel cauto calpestìo di belve.

Sommessamente parlano, commosse

ancor dal vento, che vanì; dal vento

Borea, che le aspreggiò, che le percosse.

Dal ciel lontano a quel vagito lento

egli era accorso; ma nell’infinito

ansar di tutto, dopo lo spavento,

risuona ancora quel lento vagito.

III

Chi vagisce, è Tiberio. E il vento accorre

dal ciel profondo tuttavia; spaura

le nubi in fuga, e sbocca dalle forre.

Le selve il mormorìo della congiura

mutano in urlo, e gli alberi giganti

muovono orridi in una mischia oscura.

Lottano i pini coi disvincolanti

frassini, e l’elci su la stessa roccia

coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.

E il fiore della fiamma apresi e sboccia.

IV

Sboccia la fiamma, e il vento la saetta,

come una frusta lucida e sonante,

via per ogni pendìo, per ogni vetta.

Il vento con la frusta fiammeggiante,

col mugghio d’una mandrïa di tori,

cerca il vagito del fatale infante.

Ardono i monti; ma ne’ suoi due cuori

Livia tranquilla, indomita, ribelle,

tra i rossi òmeri de’ gladïatori,

nutre Tiberio con le sue mammelle.